Nella pittura per “capriccio” si intende un’opera d’arte frutto della fantasia dell’autore, che non trova un suo corrispettivo in natura o che diverge dalle norme compositive artistiche esistenti. Spesso utilizzato, più in generale, per indicare la pittura di paesaggio, il capriccio a partire dai primi del Seicento verrà identificato come un vero e proprio genere artistico, basato sulla composizione di paesaggi immaginari realizzati attraverso giustapposizioni di rovine dell’antichità rielaborate oppure di vedute con edifici mai costruiti.
Le prime testimonianze di capriccio le possiamo trovare nelle opere di Alessandro Salucci e Viviano Codazzi, a Roma nel XVII secolo. I capricci di Salucci sono fantasiosi e creativi, il suo approccio è libero da vincoli stilistici: per conseguire i propri obiettivi artistici riorganizza con maestria i monumenti reali aggiungendo particolari inesistenti; il portico romano, con l’acqua in lontananza e delle figure in primo piano sono elementi ricorrenti delle sue composizioni. Le vedute di Codazzi, più realistiche di quelli di Salucci, raffigurano invece rovine romane oppure immaginarie, ma sempre sul piano della verosimiglianza, con la luce che svela archi sbrecciati e monumenti cadenti e polverosi.

Canaletto, Capriccio con rovine classiche (1723)
Al capriccio scenografico si dedicarono, riscuotendo particolare successo, artisti come Marco Ricci Giovanni Ghisolfi; tuttavia, il più noto promotore di questo genere sarà il pittore piacentino Giovanni Paolo Pannini: i suoi capricci, raffiguranti città e scene di antiche rovine, sono accompagnati da dettagli fittizi accostati senza alcun nesso storico o topografico, ma di forte richiamo evocativo. Il capriccio si affermerà nella pittura veneziana del XVIII secolo come genere caratterizzato da riproduzioni di architetture fantastiche o di edifici reali integrati con pezzi mancanti, secondo i canoni della prospettiva. Nel “Capriccio con rovine classiche” (1723), ad esempio, Canaletto accosta la piramide di Caio Cestio a Roma alla Basilica Palladiana, in uno scenario suggestivo simile a una scenografia teatrale. In alcuni dipinti, invece, il capriccio viene realizzato attraverso una commistione di edifici moderni strappati da diversi contesti urbani, come nel caso del Capriccio palladiano (1742): il dipinto raffigura un corso d’acqua attraversato da burci e gondole, che ci comunicano che siamo a Venezia, ma le costruzioni raffigurate, realmente esistenti (come la Basilica Palladiana e Palazzo Chiericati), sono estratte da altre realtà cittadine.

Canaletto, Capriccio palladiano (1742)
I più tardivi capricci di Francesco Guardi raffigurano, invece, qualcosa che va oltre il pittoresco “theatrum mortis” spensierato: i suoi “capricci lagunari” raccontano con tono drammatico una Venezia in decadimento, silenziosa e profondamente corrosa dalle intemperie e dalla morsa del tempo, quasi fossero delle visioni oniriche. Per definire questo particolare modo di interpretare il panorama urbano dei capricci viene usualmente utilizzata l’espressione “civitas metaphisica”: la riunione di più elementi architettonici estratti dal loro contesto originario, oltre a privarli delle caratteristiche identificative e topografiche reali, ne sposta la rappresentazione oggettiva virandola su un piano quasi meta-fisico, dando origine a un paesaggio virtuale esclusivamente frutto della proiezione mentale dell’artista, costruito scompattando e riassemblando elementi del reale.